Spotorno L.; Romagnoli S.; Ivaldo N.; Grappiolo G. and Bibbiani E.: Indicazioni nel trattamento della coxartrosi.
INTRODUZIONE
Agli inizi degli anni 70 la chirurgia dell’anca atrosica vedeva la netta prevalenza di trattamenti conservativi rappresentati da osteotomie ed artrodesi. A distanza di un ventennio tale indicazione è completamente mutata: è praticamente scomparsa l’indicazione all’artrodesi, mentre l’intervento di osteotomia viene riservato a casi selezionati in pazienti relativamente giovani.
Ai giorni nostri la sostituzione protesica si può con tranquillità proporre come intervento di elezione per la risoluzione della maggior parte della patologia artrosica dell’anca.
A determinare questo cambiamento di tendenza hanno contribuito vari fattori:
- Possibilità di rapida ripresa funzionale in accordo con le mutate aspettative da parte dei pazienti
- La constatazione della sopravvivenza a lungo termine di serie di impianti e della qualità dei relativi risultati clinici (presenza in letteratura di casistiche significative).
- La diffusione e il miglioramento della tecnica chirurgica.
- L’evoluzione dei materiali e dei disegni protesici.
- La possibilità in caso di fallimento del primo impianto di sostituzione delle componenti protesiche con sufficienti garanzie qualitative di risultato.
ASPETTATIVE DI RECUPERO FUNZIONALE
L’intervento di osteotomia, pur correttamente eseguito, a seconda del tipo di correzione effettuata, può determinare una non completa risoluzione della sintomatologia dolorosa, una dismetria residua degli arti inferiori con zoppia e, in ogni caso, un lungo periodo di deambulazione con appoggi.
Queste problematiche sono oggigiorno difficilmente tollerate dai pazienti che ricercano una “restitutio ad integrum” quanto più rapida e completa possibile.
Esse comportano inoltre un elevato costo sociale in termini di capacità lavorativa persa e assistenza necessaria.
L’indicazione all’osteotomia si riduce quindi a quei casi selezionati in cui ha un significato preventivo: pazienti di età inferiore ai 55 anni e con modesta degenerazione artrosica principalmente su patologia displasica o deviazioni assiali post-traumatiche.
Per contro, l’intervento di artroprotesi consente una rapida e pressocché completa ripresa funzionale: significativo è il fatto che già dopo 3 o 4 giorni dall’intervento il paziente può iniziare la deambulazione e nell’arco di 3-4 mesi mesi è generalmente in grado di riprendere una discreta attività lavorativa.
Il recupero completo, con possibilità di dedicarsi ad attività fisiche più impegnative, avviene di solito in 6-8 mesi.
CONSTATAZIONE DELLA SOPRAVVIVENZA A LUNGO TERMINE DI SERIE DI IMPIANTI
Tra gli interrogativi a cui più spesso è chiamato a rispondere il chirurgo da parte del paziente che necessita di un intervento di sostituzione protesica, vi è quello riguardante la possibilità di durata dell’impianto.
Analizzando le curve di sopravvivenza dei primi impianti routinari che risalgono a circa 30 anni or sono e si riferiscono a componenti cementate, possiamo affermare che il traguardo dei 15/18 anni può essere realisticamente preso in considerazione.
L’esprimere una previsione in merito alle componenti non cementate, risulta più complesso, in relazione al follow-up più limitato ( sempre in riferimento ad impianti routinari)ed alla grande varietà di modelli attualmente esistenti, diversi per forme e materiali utilizzati.
Nella sezione di Chirurgia Protesica operante presso l’Ospedale di Pietra Ligure, abbiamo recentemente effettuato una revisione della nostra casistica riguardante i primi 300 steli non cementati (C.L.S.) impiantati negli anni compresi fra il 1983 e il 1985 (fig. 1).
Riportiamo alcuni dati significativi:
L’ottantuno per cento dei risultati sono stati giudicati buoni o ottimi secondo i criteri di valutazione internazionali.
In altri termini si tratta di pazienti che riferiscono assenza di dolore a carico dell’anca protesizzata, deambulano per alcuni chilometri senza sostegno e svolgono attività lavorativa e sportiva spesso di un certo impegno.
Sotto il profilo radiografico il 96% dei casi esaminati presentava modificazioni dell’osso periprotesico di minima o nulla entità rispetto ai radiogrammi post-operatori.
Soprattutto questo ultimo dato appare fortemente indicativo in merito alla possibilità di sopravvivenza a lungo termine.
AFFINAMENTO DELLE TECNICHE CHIRURGICHE
Negli ultimi anni si è registrato un progressivo miglioramento delle tecniche di impianto tale da rendere intervento di protesizzazione, quanto meno nei centri specializzati, una pratica chirurgica ben definita e a basso rischio.
La possibilità di disporre di una ampia scelta di taglie e modelli protesici, oltre che di strumentari particolarmente affidabili, costituisce di per sè un grande vantaggio.
A questa va aggiunta l’acquisizione di una sempre maggiore esperienza e cultura tecnico-scientifica da parte dei chirurghi, favorita dalle attuali possibilità di apprendimento, (corsi, workshops).
L’evoluzione della tecnica chirurgica e soprattutto la standardizzazione degli interventi consente di ottenere da un lato un alto livello di precisione in fase di impianto, presupposto fondamentale per un buon risultato a lungo termine, dall’altro una diminuzione dei tempi di esposizione chirurgica.
Questo ultimo fattore assume particolare rilevanza se si considera il rapporto di proporzionalità diretta esistente fra durata dell’intervento e insorgenza di complicanze settiche.
Sulla base della nostra esperienza in proposito, riferita all’impianto di oltre 1000 artroprotesi di anca ogni anno, possiamo affermare che il rischio di infezione può essere contenuto entro termini accettabili (< 0,5% nei casi di sostituzione primaria) se si dispone di una sala operatoria con garanzia di sterilità e se si effettuano una adeguata antibiotico-profilassi perioperatoria ed una adeguata preparazione del paziente.
Un ulteriore ausilio alla chirurgia protesica è giunto dalle pratiche della auto-emo-trasfusione e del recupero intraoperatorio delle perdite ematiche che hanno consentito di minimizzare e spesso addirittura annullare il ricorso alle trasfusioni omologhe, con tutti i benefici facilmente intuibili; particolarmente positiva risulta la possibilità di eliminare il pericolo di trasmissione delle ben note malattie virali che, tanto negativamente influiscono anche a livello puramente emotivo sulla psiche dei pazienti.
L’EVOLUZIONE DEI MATERIALI E DEI DISEGNI PROTESICI
Le esperienze cliniche, gli studi di biomeccanica, di istocompatibilità e scienza dei materiali hanno permesso la realizzazione di artroprotesi d’anca che, rispondendo alle diverse esigenze, consentono per ogni paziente di procedere all’impianto più idoneo.
Alle artroprotesi d’anca cementate, che rappresentavano nel passato la scelta routinaria, si sono affiancate le artroprotesi a componenti non cementate.
Queste ultime, utilizzando materiali biocompatibili sottoposti a particolari trattamenti di superficie, permettono di ottenere l’osteointegrazione, che conferisce all’impianto protesico una fissazione solida e duratura.
Le leghe più comunemente utilizzate per le protesi non cementate sono quelle di cromo-cobalto e quelle di titanio, mentre i trattamenti di superficie generalmente adottati sono la sabbiatura con getto corundico e l’applicazione del cosiddetto plasma spray o della idrossiapatite.
Con questi procedimenti viene ottenuta una microporosità di superficie che realizza un incremento dell’interfaccia osso-impianto. L’aumento di interfaccia può essere ottenuto anche con la creazione di superfici macro-porose (applicazione di micro-biglie, stratificazioni di fibre di titanio).
I materiali compositi (polisulfonati, fibre di carbonio) sui quali si è recentemente concentrata la ricerca, non sembrano, al momento, soddisfare le esigenze cliniche sia dal punto di vista biomeccanico che della biotollerabilità. E’ stato soprattutto il riscontro della modesta resistenza all’abrasione a limitarne la possibilità di utilizzo.
L’impiego dell’idrossiapatite, applicata in strato sottile sulla superficie protesica, è giustificato dalle riconosciute proprietà di accelerare il processo di osteointegrazione.
Per contro la creazione di una nuova interfaccia accresce la complessità del sistema con possibili incognite che solo una verifica a lungo termine potrà definitivamente chiarire.
Analizzando le caratteristiche del disegno protesico, dobbiamo ovviamente distinguere fra la componente cotiloidea (tra le più utilizzate quelle a forma emisferica oppure a schiacciamento polare) e la componente femorale (di cui esistono modelli anatomici dotati di curvatura e modelli retti).
Da segnalare anche la possibilità di utilizzare componenti femorali personalizzate specialmente indicate nei casi che presentano marcate anomalie morfologiche.
Queste componenti custom-made vengono ottenute tramite l’elaborazione delle sezioni TC del femore prossimale.
IPOTESI DI FALLIMENTO DEL PRIMO IMPIANTO E CONSEGUENTE REINTERVENTO
L’insuccesso di un impianto protesico si manifesta con una mobilizzazione delle componenti che può determinare, nei casi avanzati, importanti difetti ossei.
In tema di mobilizzazioni è necessario innanzi tutto distinguere le forme settiche da quelle asettiche.
Nel primo caso il processo flogistico, che può manifestarsi sia in forma eclatante (con rialzo termico, dolore notturno, formazione di fistole) che in forma più subdola, viene solitamente trattato con l’immediata rimozione dei componenti protesici seguita da antibioticoterapia mirata.
Il reimpianto potrà essere effettuato dopo l’avvenuta normalizzazione dei parametri laboratoristici e strumentali.
L’insuccesso legato a scollamento asettico può riconoscere, in termini schematici, tre ordini di cause:
- difetto intrinseco della componente protesica (disegno, materiali, trattamento di superficie)
- difetto di tecnica chirurgica (mancato conferimento della stabilità primaria, cementazione insufficiente)
- errore di indicazione (utilizzo di componenti femorali non cementate in casi con morfologia e qualità ossea inadeguate).
Come si può intuire, il trattamento consisterà nella riprotesizzazione eseguita con criteri corretti.
In linea generale va detto che qualsiasi reintervento costituisce di per sè una procedura complessa in relazione alle difficoltà legate alla rimozione dei componenti e alla presenza di difetti ossei talora importanti.
Questo tipo di chirurgia deve essere effettuata in centri specialistici sia per l’esperienza richiesta da parte del chirurgo, sia per l’ampio assortimento di modelli protesici necessari.
La rimozione di una protesi cementata risulta di solito più laboriosa rispetto a quella di una senza cemento.
Fanno eccezione i modelli a superficie macroporosa (tra cui rientrano i cosiddetti rivestimenti coralliformi) per i quali la rimozione risulta, di solito, particolarmente indaginosa e demolitiva.
Anche il livello qualitativo dei risultati ottenibili in questo settore si è decisamente elevato, tanto da avvicinarsi, in molti casi a quelli dei primi impianti.
Le motivazioni vanno ricercate, oltre che nell’evoluzione dei materiali specifici e delle metodiche chirurgiche, in un affinamento delle capacità diagnostiche.
La precoce selezione dei casi che mostrano segni di scollamento consente infatti di procedere all’intervento di revisione. prima che si instaurino difetti ossei importanti, e quindi con ottime possibilità di successo.
INDICAZIONI PROTESI CEMENTATE-NON CEMENTATE
Nel nostro Reparto impiantiamo di routine una componente cotiloidea non cementata, preferibilmente a schiacciamento polare, mentre per quanto riguarda lo stelo femorale utilizziamo sia componenti cementate (fig 2) che non cementate ad ancoraggio prossimale (press-fit) con un rapporto approssimativamente paritario fra i due tipi di impianto.
L’indicazione all’utilizzo di uno stelo cementato ovvero di uno senza cemento costituisce una problematica complessa e ampiamente dibattuta.
La ragione di ciò va ricercata, oltre che nelle personali convinzioni di ciascun chirurgo, nella molteplicità dei fattori che debbono essere esaminati per ogni singolo paziente.
Nel tentativo di creare una metodica il più oggettiva e completa possibile, abbiamo messo a punto, a partire dal 1985 un protocollo di indicazione basato sulla valutazione di cinque parametri clinici e radiografici relativi al paziente in esame.
A ciascun parametro viene attribuito un punteggio.
Il valore ottenuto dalla somma finale dei punteggi consente, come vedremo in seguito, di formulare l’indicazione.
I parametri valutati sono: l’età, il sesso, il grado di osteoporosi, la morfologia femorale e la diagnosi.
Età
Come è noto, in tema di modificazioni scheletriche, l’età del paziente non può essere intesa come dato puramente anagrafico, ma acquisisce un significato più propriamente biologico.
Comunque, per semplificare, riteniamo che dopo i 70 anni uno stelo cementato, che consente abitualmente un periodo di riabilitazione più rapido ed indolore, costituisca l’indicazione elettiva. Al contrario prima dei 50 anni uno stelo non cementato rappresenta la nostra scelta routinaria.
Punteggio attribuito
- <50 anni: 0 punti
- 50-60 anni: 1 punto
- 60-70 anni: 2 punti
- >70 anni: 4 punti
Sesso
Il sesso femminile con la progressiva insorgenza dell’osteoporosi in relazione alle modificazioni ormonali indotte dalla menopausa, è indubbiamente più a rischio per quanto riguarda i parametri relativi alla qualità ossea.
Punteggio attribuito
- maschio: 0 punti
- femmina: 1 punto
Osteoporosi
La presenza di una grave osteoporosi influisce negativamente sia sul conseguimento della stabilità meccanica (primaria) che sulla successiva osteointegrazione (stabilità secondaria) o, quanto meno, impone l’utilizzo di uno stelo surdimensionato ad ancoraggio medio distale, il che si ripercuote negativamente sul mantenimento del trofismo osseo.
La valutazione del grado di osteoporosi, può avvalersi di vari metodi radiografici e strumentali (TC, densitometria).
Una metodica accurata e di semplice attuazione è quella proposta da Singh (modificata) basata sulla valutazione delle trabecole del collo femorale.
Distinguiamo 4 livelli di osteoporosi (fig. 3) :
- Fisiologico (Singh 7): 0 punti
- Lieve (Singh 6-5): 1 punto
- Media (Singh 4-3): 2 punti
- Grave (Singh 2-1): 4 punti
Indice morfocorticale
E’ secondo la nostra esperienza il parametro più significativo.
Per quanto riguarda la morfologia prossimale, i femori possono essere divisi in 3 tipi (Fig. 4): trombetta
cilindrico displasico ( inquadrabile a seconda dei casi in una delle due precedenti categorie).
Il femore a trombetta presenta un diametro del bulbo trocanterico circa doppio rispetto all’istmo diafisario e corticali spesse.
E’ il femore ideale per l’impianto di uno stelo non cementato.
La sua morfologia consente ad una protesi a disegno idoneo di ancorarsi prossimalmente conseguendo un ottima stabilità meccanica, presupposto fondamentale per la stabilizzazione definitiva.
Una siffatta morfologia permette inoltre di protesizzare il femore con una quota di metallo relativamente bassa, il che si traduce in un maggiore rispetto della fisiologia dell’osso. Nella creazione del composito protesi-osso è infatti auspicabile che l’elasticità dello stesso si allontani il meno possibile da quella del solo osso.
Per la stessa ragione si tende a dare la preferenza alle leghe di titanio che presenta il modulo elastico più favorevole tra i metalli comunemente più impiegati.
Il rispetto dell’elasticità del sistema consente al femore prossimale di deformarsi sotto l’azione del carico fisiologico, il che equivale a garantirne il trofismo e quindi la vita a lungo termine.
Il femore cilindrico, all’opposto, presenta un diametro del bulbo trocanterico simile a quello dell’istmo diafisario, morfologia cilindrica del canale midollare e, nel caso di evoluzione osteoporotica, corticali sottili.
Le suddette condizioni , creano problemi di stabilità meccanica e impongono l’utilizzo di taglie massicce che incrementano la differenza di elasticità fra contenuto (stelo) e contenente (osso). Ed é ormai noto che la creazione di un sistema le cui caratteristiche siano fortemente influenzate dalla componente protesica influisce negativamente sul trofismo osseo.
L’ I.M.C. (indice morfocorticale) si ottiene dal rapporto tra il diametro extracorticale misurato alla metà del piccolo trocantere ed il diametro intracorticale preso 7 cm più distalmente. (fig 5)
Punteggio attribuito in base all’ I.M.C.
- IMC > 3,1: 0 punti
- 3,0>IMC > 2,7: 1 punto
- 2,6>IMC > 2,3: 2 punti
- IMC >2,2: 4 punti
Diagnosi
La presenza di una diagnosi di artrite reumatoide, o comunque di patologie che necessitano di prolungato trattamento cortisonico costituisce, a nostro avviso, una relativa controindicazione all’impianto di uno stelo non cementato.
Punteggio attribuito
- Altre diagnosi: 0 punti
- Artrite reumatoide: 1 punto
Valutazione finale
- 0 – 4 punti: stelo non cementato
- 5 punti: indicazione discutibile
- > 6 punti: stelo cementato
CONCLUSIONI
Alla luce delle considerazioni esposte nei precedenti paragrafi si può concludere che l’intervento di sostituzione protesica rappresenta attualmente la procedura di scelta nel trattamento della coxartrosi.
Nel paziente di età superiore ai 55/60 anni un atteggiamento astensionistico può essere giustificato soltanto dalla esistenza di patologie concomitanti, tali da elevare significativamente il rischio operatorio.
Nei soggetti di età inferiore potranno talvolta essere prese in considerazione soluzioni conservative (osteotomie a carico del femore prossimale) da riservare ai casi in cui rivestono un significato di prevenzione nei confronti del processo degenerativo.
FIGURA n.1 impianto non cementato (sistema CLS)
FIGURA n.2 impianto ibrido (cotile non cementato – stelo cementato MS)
FIGURA n.3 indice di Singh modificato
FIGURA n.4 tipi di femore prossimale
FIGURA n.5 indice morfocorticale
BIBLIOGRAFIA
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